“La moglie americana” è un altro grande elogio alla nostra città. Una vera e propria dichiarazione d’amore, di una ragazzina, oggi donna, alla bella Partenope.
Il libro porta la firma di Katherine Wilson. In America è stato pubblicato come “Only in Naples”, tradotto in otto lingue ha riscosso molto successo anche nel nostro Paese soprattutto per l’amore nei confronti di Napoli che traspare da ogni pagina.
Katherine arriva da Washington, fresca di Princenton approda a Napoli per uno stage. È stato amore a prima vista, o “quasi” e non è più andata via. Recentemente si è raccontata al settimanale “F” e a quanto le fu chiesto di fare attenzione a Napoli in quanto vista da sempre come città pericolosa.
Katherine in qualche modo non si è fidata di quelle “voci di corridoio” e da subito impara ad amare gli odori di questa città, i suoni e la gente. Ma soprattutto Salvatore, suo marito.
Katherine ha origini italiane, suo nonno era figlio di calabresi e le raccontava che i napoletani erano in grado di rubarti i calzini senza nemmeno sfilarti le scarpe. Insomma folklore per la fresca laureata che pare non ci abbia creduto visto che ancora oggi, dal 1996, è rimasta nella città partenopea.
Così racconta Katherine:
Napoli è come New York o la ami o la odi. Io me ne sono innamorata perdutamente e non l’ho mai più lasciata. È stato un percorso di formazione alla felicità. La cucina, il rito del pasto, la pausa caffè, le briciole da togliere velocemente, le pulizie grosse, il bucato, o rraù da pippiare per ore, il teatro a cielo aperto i cui protagonisti sono le persone.
Al primo appuntamento con l’uomo che sarebbe diventato suo marito, proprio lui, fece 20 minuti di ritardo e Katherine, come racconta ad “F”, era assurdo. La portò a casa di mammà, a Posillipo, è per la ragazza americana fu un colpo di fulmine. Si trovò immersa in un altro mondo: le acque turchine, la terrazza dalla quale ammirare Capri, Ischia, Procida e la costiera amalfitana. Le grida e i fuochi d’artificio perché a Napoli è una festa che non ha inizio né fine.
Parla del rapporto meraviglioso con una suocera meravigliosa, lontana dallo stereotipo tutto italiano di “rivalità”, di una donna che arriva per portare via suo figlio. Dalla suocera ha imparato il culto della cucina. la prima volta che la vide, racconta, stava parlando al telefono mentre sfornava la pizza e chiudeva il frigo con un calcetto. “Ehi questo sì che è multitasking”, pensò Katherine.
Racconta di quella volta in gita, con una marmaglia di ragazzini e i panini fatti dal salumiere. Un caos esagerato per capire i gusti di tutti e una volta in spiaggia come avrebbero fatto a riconoscere il contenuto dei panini per assegnarlo al bambino giusto? Anche in questo caso Katherine ammirò l’essere “smart” del salumiere:
Il salumiere aveva scritto sulla carta corrispondete i nomi di ogni bambino e di ogni adulto. Ma in quale altro posto del mondo il salumiere avrebbe fatto una cosa del genere, percependo nel caos totale chi voleva che cosa?
E ancora Katherine racconta:
Napoli è un’overdose di stimoli, una città che parla, si mostra, tocca, vive. Ed è stato amore oltre ogni stereotipo. Gli spettacoli si svolgono sugli autobus e nei bar. Ho assistito a litigi, scene di gelosia e di amore, perfino a dialoghi tragici che potrebbero fare concorrenza a qualsiasi pièce al San Carlo.
I napoletani sanno sdrammatizzare. Ci ho messo un po’ a capire perché mio marito mi è sembrato sin dal primo istante l’uomo più felice del mondo. Per Katherine i napoletani riescono a ridimensionare la gravità di una situazione realmente drammatica e alla fine è rimasta qui.
Ho sposato Salvatore e amo la sua famiglia. Non potevo smettere di andare al parco della Rimembranza, che mi fa impazzire, di fermarmi a guardare la statua del Cristo Velato, di passeggiare in via San Gregorio Armeno a guardare presepi e statuine mentre divoro una sfogliatella. Goethe ha detto: vedi Napoli e muori. Io ho visto Napoli e ho cominciato a vivere. a